Si chiude alle 18, dunque, orario in cui i ristoratori aprono per le pulizie e la preparazione del locale in attesa dell’attività serale (la più cospicua!), che rappresenta ben più del 50% degli scontrini emessi.

Questo comporterà, quindi, servizio di solo pranzo, ma molti lavoratori sono in remote working e, dal momento che il Dpcm “raccomanda fortemente” di spostarsi solo per impellenti motivazioni di studio, lavoro e necessità, si capisce bene che andare al ristorante, anche solo per il pranzo è, di fatto, non facilitato. 

Siamo alla seconda tragica chiusura in meno di 8 mesi. I dati Ismea relativi al primo lockdown, stimavano che la ristorazione italiana avrebbe affrontato un crack da 34 miliardi nel 2020 a causa della crisi economica, del crollo del turismo e del drastico ridimensionamento dei consumi fuori casa. La seconda (definitiva per molti!) chiusura costerà altri altri 2,7 miliardi di euro, secondo FIPE. Il Governo, stavolta, annuncia aiuti direttamente sui  conti correnti, ma ciò non aiuterà l’intero indotto: un fiume di piccoli e piccolissimi produttori di qualità, che, senza supporti, metteranno a repentaglio l’intera filiera nazionale. Tutti a picco.

All’estero, l’approccio è comunque restrittivo, sebbene le maglie almeno negli USA, siano più larghe. A New York, si è adottata la tecnica delle riaperture quartiere per quartiere, a seconda della diffusione del virus. I locali sono autorizzati a inserire nel conto una “tassa Covid” fino al 10% e possono mantenere i tavoli all’aperto nonostante il freddo. Nel Wisconsin, è stata decisa la riduzione dei posti al chiuso fino al 25% a seguito di un’aspra battaglia legale con le associazioni di categoria. Da New York a Chicago a Houston, molti ristoranti hanno stabilito un tempo massimo di novanta minuti entro i quali si entra, si consuma il pasto e si paga il conto. Nel vecchio continente si registra un approccio più rigoroso: locali chiusi per un mese in Belgio, con coprifuoco incluso, linea dura anche in Olanda, dopo una prima fase di mire meno incisive. In Gran Bretagna nuove restrizioni a pub, bar e ristoranti. Estreme le misure adottate in Galles, in cui le saracinesce dei ristoranti resteranno abbassate almeno fino al 9 novembre. L’Inghilterra ha adottato invece un approccio più simile a quello della Grande Mela, individuando 3 zone di rischio (risk tiers) con annesse restrizioni che incrementano all’aumentare del livello. Il settore della ristorazione inglese è limitato al solo servizio al tavolo e i pub, bar, ristoranti e altri luoghi di ospitalità in tutta l’Inghilterra chiudono alle 22 per tutte le zone di rischio. A chi si trova nel Tier 2 (alto rischio), ad esempio Londra, è invece proibito sedersi ad un tavolo insieme a membri che non facciano parte della propria famiglia o del proprio household, mentre nel Tier 3 considerato ad altissimo rischio, come l’area di Liverpool e Manchester, possono restare aperti solo quei locali che servono “substantial meals“, ovvero dei veri e propri pasti (escludendo quindi le diffusissime catene che offrono pasti takeway, bar, pub e simili). La Francia, che aveva adottato già il coprifuoco dalle 22 alle 6 del mattino, ha annunciato proprio ieri che da venerdì 30 ottobre inizierà un nuovo lockdown: chiusi bar, ristoranti e negozi non di prima necessità, si potrà uscire solo per andare a lavoro o per ragioni mediche, ma le scuole e gli stabilimenti di produzioni resteranno aperti. Anche la Germania si prepara a nuove restrizioni per contenere i contagi di Coronavirus con un «lockdown light», come lo definiscono i media tedeschi, che dal 2 novembre imporrà la chiusura forzata ai bar e lascerà ai ristoranti solo la possibilità di vendere cibo da asporto.

L’amarezza dei ristoratori non è quantificabile, a differenza del prezzo da pagare per questa decisione. A maggior ragione perché, come sappiamo, buona parte del comparto si è adeguata alle disposizioni in materia di contenimento del virus e ha “messo in tavola” tutte le precauzioni necessarie per proteggere il personale e gli ospiti: si è investito in procedure, protocolli e strumentazioni per garantire la salubrità di una cena, non solo nel piatto. Ecco, lo sconforto dei ristoratori. Ma, allo stesso tempo, non si getta la spugna ed ognuno continua a fare la propria parte, combattendo la propria quotidiana battaglia per dare un futuro al proprio sogno.

A fronte dell’ennesimo e, ai più, incomprensibile sacrificio, i ristoratori chiedono supporto vero subito: defiscalizzazione dei contributi di tutti i dipendenti, credito d’imposta per gli affitti e ulteriore finanziamento del fondo ristorazione. Intanto arriva una buona notizia: il via libera dalla Conferenza Stato Regioni al decreto attuativo del ministero delle Politiche Agricole proprio al “Fondo ristorazione“. Intanto, il Consiglio dei Ministri ha appena approvato il cosiddetto “Decreto Ristori”. Si prevede lo stanziamento di oltre 5 miliardi di euro per dare risorse (stavolta si spera immediate) a beneficio delle categorie degli operatori economici e dei lavoratori interessati dalle misure restrittive dell’ultimo DPCM. Per i ristoranti che aprivano solo la sera, ad esempio, si è deciso di applicare il coefficiente del 200 percento. Il 150% andrà a bar pasticcerie e gelaterie. Per fare un esempio concreto: un titolare di un bar che aveva ottenuto 2 mila euro con il “decreto rilancio”, potrà ora ottenere adesso 3 mila euro, un grande ristorante che aveva ricevuto 13 mila euro, potrà avere fino a 26 mila euro.

Nonstante ciò, e finchè non si vedranno accrediti sui conti correnti, continua ad aleggiare sull’intero comparto, la sensazione che stavolta non andrà tutto bene e nell’occasione della Giornata Mondiale della Pasta si sono analizzati i dati relativi al consumo di uno degli alimenti-rifugio. Durante il lockdown i consumi globali di pasta sono cresciuti del 28% e anche il suo export. È stata ospite fissa nelle cucine del 98% degli italiani: il 62% l’ha consumata tutti i giorni o quasi, il 30% tra le 2 e le 3 volte a settimana. Ci auguriamo di poterla gustare presto in convivialità, preferibilmente, in una delle 333.640 imprese, che danno lavoro a più di un milione e 200mila addetti (1.252.260), con 864.062 lavoratori dipendenti e 388.202 lavoratori autonomi. (dati FIPE 2020)