Nella banca dati brasiliana del germoplasma, fin dal 1981, tra le tante varietà iscritte ce n’è una che non fa dormire sonni tranquilli al mondo del vino italiano. È la vitis vinifera “prosecco tondo”, una denominazione pericolosamente uguale a un campione dell’export made in Italy come il Prosecco Doc e Docg. Il prosecco insomma in Brasile è legalmente registrato e può essere liberamente prodotto.
Per i dirigenti di Bruxelles, quella del prosecco è una delle spine più fastidiose nel fianco del trattato di libero scambio in corso di negoziazione tra la Ue e il Mercosur, di cui il Brasile fa parte. Questo, insieme a una trentina fra Dop e Igp che rischiano di non essere adeguatamente protette: «Giusto due settimane fa Bruxelles ha chiesto alla controparte sudamericana di inserire nei negoziati la tutela per 357 Igp europee, di cui 57 per l’Italia – racconta Paolo Di Stefano, responsabile delle relazioni internazionali della Coldiretti -. Considerato che in Italia ci sono 291 denominazioni protette soltanto per i prodotti agricoli, più tutte le Doc dei vini, significa che in Sudamerica sarebbe tutelato meno del 10% del made in Italy. E come se non bastasse, il Mercosur ha già presentato opposizione formale contro 30 di queste 57 richieste di tutela».
La protezione delle Dop italiane è un nodo non da poco. In Brasile, così come in Argentina, sono parecchi i prodotti italian sounding, dal Grana carioca al Reggianito: molti di questi sono stati introdotti un secolo fa dagli immigrati italiani. «Aumentare gli scambi è sempre positivo sulla carta, ma al Mercosur stiamo offrendo senza avere niente in cambio per l’agroalimentare italiano – sostiene il presidente di Federalimentare, Luigi Scordamaglia -. Questi Paesi continuano a tenere quasi tutte le barriere non tariffarie di cui non vogliono parlare, e a rifiutare nella sostanza chiare garanzie sulle protezioni sulle denominazioni d’origine. Con questa Commissione ormai delegittimata meglio fermarsi qua».
Sono in molti peraltro, nei corridoi di Bruxelles, quelli dell’idea che tra elezioni in Brasile e rinnovo prima del Parlamento Ue e poi della Commissione, difficilmente il trattato di libero scambio col Mercosur andrà in porto. Intanto, il Prosecco Garibaldi – si chiama proprio così – fa bella mostra di sé sugli scaffali brasiliani.
Un vero peccato perché questo, per il vino italiano in Brasile, è un momento d’oro. Nel 2017 l’export di bottiglie made in Italy è cresciuto del 48% e ha fiorato i 35 milioni di euro. Secondo i dati Vinitaly-Nomisma Wine Monitor, nei primi otto mesi del 2018 l’Italia ha addirittura sorpassato la Francia ed è diventata il quarto esportatore di vini in Brasile, dietro a Cile, Argentina e Portogallo.
Nonostante le barriere tariffarie e non, lo spazio per crescere c’è. Ci crede per esempio Veronafiere, fresca della sua prima edizione del Vinitaly brasiliano. Wine South America si è svolta dal 26 al 29 settembre scorso a Bento Gonçalves nel Rio Grande do Sul, dove si concentra il 90% degli 80mila ettari coltivati a vigneto del Paese. La manifestazione è stata organizzata da Veronafiere Do Brasil, controllata del gruppo veronese, e ha visto la partecipazione di 250 aziende tra cantine, esportatori, distributori e produttori di macchinari per la vitivinicoltura. «La domanda di vino ha risentito certamente dei problemi politico-finanziari, ma ora il Brasile è pronto al rilancio – sostiene Giovanni Mantovani, direttore generale di Veronafiere -. Il nostro Paese non è solo in grado di aumentare l’export verso il Sudamerica, ma anche di creare le condizioni per un’enologia importante in queste aree. I 25 milioni di italo-brasiliani sono un punto di partenza culturale fondamentale, ora dobbiamo lavorare per far sì che il know how italiano possa fare matching con questo valore aggiunto. Solo nella scorsa edizione della rassegna a Verona abbiamo registrato circa 2.200 operatori del Sud-Centro America: puntiamo a un upgrade, dal made in al made with».
Ma come si può proteggere, tutto questo potenziale del mercato sudamericano? Il Consorzio del Valpolicella sta tentando la via della registrazione dei marchi: «Abbiamo cominciato a registrare l’Amarone, il Recioto e il Ripasso come marchi un po’ in tutto il mondo – spiega Andrea Sartori, presidente del consorzio – un’operazione non di poco conto, visto che abbiamo già speso 600mila euro per farlo. Purtroppo, però, non ci riusciamo sempre. In Cile, per esempio, il marchio Ripasso era già registrato. Del resto, il “ripasso” è il nome di una tecnica generica, non di un singolo vino». Chiunque insomma poteva registralo: in Cile, semplicemente, ci sono arrivati per primi.
Fonte: Il Sole 24 Ore