Le proteste in Sardegna ne sono la manifestazione evidente: ci vuole una strategia comune per i diversi soggetti del settore, da coltivatori e allevatori fino alla trasformazione industriale e alla Gdo.

E ora nasce un benchmark
Un piatto di pasta, condita con pomodoro e un filo d’olio extravergine d’oliva. Si può partire dal ‘primo’ più semplice della cucina italiana per capire come mai i coltivatori che producono grano, pomodoro e olive siano riusciti a mettersi d’accordo con gli industriali (imprese piccole e grandi che trasformano gli alimenti e poi mandano pacchi, scatole, bottiglie negli scaffali dei negozi e dei supermercati). Contadini e industriali uniti nella lotta? Sarebbe esagerato. Ma campagna e industria cercano comunque un’alleanza e lo fanno con Filiera Italia che vuole “coltivare e produrre eccellenze alimentari”. Il “coltivare” è garantito dalla Coldiretti, il “produrre” da più di 50 aziende (compresi i giganti Ferrero, Inalca, Bonifiche Ferraresi).

«Con questa intesa – dice subito Luigi Scordamaglia, presidente di Filiera Italia – vogliamo proteggere e rilanciare l’agroalimentare Made in Italy. Come? Fino ad oggi è sempre esistita una parte dell’industria di trasformazione che ha minimizzato il ruolo della produzione, trattandola come commodity: un bene indifferenziato, non importa se prodotto in Italia, in Canada o in Cina, quello che conta è soltanto il prezzo basso». La necessità di una alleanza è drammaticamente dimostrata anche in questi giorni con il latte-commodity versato sulle strade della Sardegna. «La produzione agricola che ha spesso visto nell’industria di trasformazione un soggetto pronto ad approfittare delle condizioni di mercato contina Scordamaglia – Con Filiera Italia questo approccio è definitivamente superato».

Non sono filantropi, quelli della Filiera (50% produttori, 50% industria, decisioni da prendere all’unanimità).
«Il nostro – racconta Luigi Scordamaglia – è un progetto di business. Faccio un esempio. L’allevatore di bovini non in filiera cresce gli animali per 18 mesi senza sapere a chi e a quale prezzo riuscirà a venderli. Se entra in filiera, sa già che l’animale maturo sarà comprato a un prezzo stabilito, che tiene conto anche del benessere animale, della giusta alimentazione. L’industria, avendo la sicurezza di una produzione nazionale, può valorizzare l’italianità del prodotto finale, ottenendo così un prezzo più alto sul mercato. Questo vale in ogni settore: la nostra filosofia prevede di dedicare attenzione ad ogni singolo grammo di prodotto agroalimentare. Attenzione e cura applicate però a milioni di tonnellate».
Torni al piatto simbolo (pasta, olio e pomodoro) e scopri subito che la Filiera italiana è una treccia composta da mille altre filiere. «So da molto tempo – dice Cosimo Rummo, titolare dell’omonimo pastificio di Benevento (“Maestri pastai dal 1846”), 100 milioni di fatturato previsto quest’anno – che se stanno bene gli agricoltori, stiamo bene tutti. Il contadino che non guadagna cambia mestiere e noi siamo costretti a importare dall’estero. Per la nostra pasta a lenta lavorazione cerchiamo soprattutto la qualità e siamo disposti a pagarla. Il grano base in Italia oggi costa 230-240 euro la tonnellata mentre i nostri fornitori ricevono 280 euro, con punte più alte, oltre i 300. Il grano di qualità italiano non basta e allora cerchiamo le eccellenze nel mondo, che sono in Arizona e in Australia. Non è grano commodity: costa più di quello italiano. Filiera Italia è importante perché per la prima volta non ci si confronta solo all’interno delle associazioni di categoria ma si fa rete con tutti: coltivatori, industriali, distribuzione ed io aggiungerei anche i consumatori. E’ una faccenda di cultura, non solo business: dobbiamo fare sapere che mangiare bene vuol dire vivere bene e più a lungo».

«Fare rete – racconta Cosimo Rummo di Pastificio Rummo – è anche costruire solidarietà. Se non ci si mette assieme, siamo destinati a spegnerci, di fronte a una globalizzazione che diventa sempre più aggressiva. La Cina compra terre e produce in Paesi dove il salario varia da 50 a 100 euro al mese. Non possiamo certo competere con questi bassi costi. Noi abbiamo un’alta qualità però c’è ancora bisogno di ricerca ed è su questo che occorre investire. I grani dell’Arizona non sono certo nati per caso. Abbiamo fatto contratti di filiera con coltivatori della Puglia e delle Marche che ci danno un grano ottimo ma non ancora nella quantità che ci serve. E si torna così al primo problema: bisogna crescere. Ma per farlo è necessario che, prima di tutti, stiano bene i contadini».

Sulla pasta, il pomodoro. In Italia se ne producono 4,6 milioni di tonnellate, 2 dei quali in Emilia. Quando versate la passata sugli spaghetti, dedicate un pensiero al coltivatore che l’anno scorso ha ricevuto, per un chilo di pomodoro, centesimi 7,9 (79,95 euro la tonnellata). «Già nel 1977 – racconta Paolo Voltini, presidente del Consorzio Casalasco del pomodoro, 5,3 milioni di quintali lavorati, 380 imprese agricole socie, 270 milioni di fatturato – abbiamo capito che bisognava mettersi assieme, per fare forza critica e non presentarsi da soli ai cancelli dell’industria. I nostri soci, rispetto al prezzo interprofessionale fissato ogni anno, ricevono circa il 20% in più, e contano in ogni momento, dalle piantine al raccolto, sull’assistenza di agronomi specializzati. Dal 2000, in tre stabilimenti, prepariamo il prodotto finito in Co-Packing , per conto terzi, per grandi industrie italiane e non solo. E dal 2007, con l’acquisizione di Pomì e De Rica, abbiamo anche i nostri marchi. Solo così, con la nostra forza, possiamo aggredire il mercato e dare reddito ai nostri coltivatori».

Un filo d’olio, prima di mescolare. “Quest’anno – dice Pompeo Farchioni, titolare della Farchioni Olii di Giano dell’Umbria, 150 milioni di fatturato – i prezzi sono alti perché la produzione è stata falcidiata. Un olio di buona qualità, 100% italiano, viene pagato al produttore 6 euro al chilo, in autobotte. Con l’accordo fatto con i nostri produttori riusciamo a pagare il 5% in più. Sembra poco ma quando i prezzi sono alti la filiera non incide tanto. L’accordo è invece indispensabile negli anni di crisi. Noi dobbiamo riuscire a stabilizzare un prezzo sui 6,50 euro al chilo, che permette un reddito certo a chi pianta ulivi e attende per anni la piena produzione. Ma per fare questo non basta lavorare bene, bisogna farlo sapere. Se non tutti sanno che il tuo olio ha un quid in più, come fai a vendere a un prezzo giusto? Per questo Filiera Italia è una grande opportunità. Ci si mette assieme per garantire che olio, pasta, carne, birra (io produco anche quella, assieme a vino e farina di grano tenero) con il simbolo Filiera Italia hanno tutti quel quid in più».

Certo, la strada è in forte salita. Agli agricoltori – secondo una recente denuncia della Coldiretti – arrivano appena 22 centesimi per ogni euro di spesa in prodotti agroalimentari freschi, che scendono addirittura a 2 centesimi nel caso di quelli trasformati, dal pane ai salumi fino ai formaggi. «Con Filiera Italia – dice Ettore Prandini, presidente nazionale dell’associazione – vogliamo raccontare ai consumatori dove ogni prodotto nasce e come viene lavorato. E’ una sinergia che vuole anche fare conoscere all’estero il vero Made in Italy. Nell’ortofrutta, ad esempio, mentre il consumo nel mondo aumenta il nostro export 2018 è calate del 12% (meno 41% le mele, meno 16% il kiwi, meno 30% le pesche). Serve un centro unico di direzione per salvare le nostre quote e conquistare nuovi mercati».

Un Made in Italy sempre più attaccato dall’Italian sounding: scrivi “Pasta di nonna Ada”, ci metti sopra una bandierina tricolore e il prodotto ha un “suono” italiano. «Oggi il furto perpetrato dall’Italian sounding – spiega Scordamaglia – ha superato la vetta dei 90 miliardi di euro, che incide per il 64% sull’attuale fatturato del settore che viaggia sui 140 miliardi. Contrastare questo inganno è una priorità: anche per questo abbiamo costruito Filiera Italiana».

Fonte: Affari e Finanza