Il Poligrafico ha completato il progetto per il “bollino di qualità” ma infuriano le polemiche sui criteri di attuazione: il governo media sulla questione dei prodotti lavorati nel nostro Paese, ma con materie prime dall’estero
L’olio, con garbo, dice no. Il vino frena. Latte e formaggi (salvo i consorzi) applaudono convinti, carne e salumi un po’ meno. Mentre gli agricoltori di casa nostra sul piede di guerra sono pronti a fare le barricate. Il super-marchio per proteggere il Made in Italy della tavola tricolore dai tentativi di imitazione non è ancora nato ma ha già iniziato a far scricchiolare i fragili equilibri del settore alimentare del Belpaese.
Lo “stellone” – come lo chiamano tutti quelli che l’hanno visto – è stato presentato qualche settimana fa dal ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, in un conclave con i protagonisti del comparto con un obiettivo semplice: creare una etichetta unica a prova di contraffazione (messa a punto dagli esperti del Poligrafico dello Stato) destinata da oggi in poi a garantire l’italianità dei prodotti su cui sarà appiccicata. L’arma finale – sono convinti in molti – per difendere una delle eccellenze nazionali come la gastronomia ma volendo anche gioielli, moda e altro – dai milioni di “cloni” italian sounding come il mitologico e farlocchissimo parmesan che ci rubano decine di miliardi di vendite l’anno. L’idea messa sul tavolo da Calenda in collaborazione con il collega dell’Agricoltura Maurizio Martina è piaciuta a tutti.
Peccato che quando si è trattato di tradurla in realtà siano scattati i distinguo: cosa è davvero il made in Italy? Chi ha diritto a fregiarsi dello stellone? Vanno tutelati solo i prodotti fatti con il 100% di materie prime domestiche o quelli di chi – forte di tradizioni e competenze centenarie trasforma qui ingredienti con passaporto estero? Il piano del governo ha scelto una strada chiara, quella tracciata dalle regole del codice doganale riconosciute nel mondo: il “made in” indica la nazione “dove è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale di un prodotto”: il Parmigiano-Reggiano di montagna è made in Italy come la pasta creata in un pastificio tricolore con un cocktail di grani arrivati anche dal Canada. Una bottiglia di Brunello di Montalcino figlio di uve delle colline toscane deve essere tutelato come una bresaola lavorata e stagionata in Valtellina (creando posti di lavoro e valore aggiunto) ma con carne di Zebù brasiliano. Un cappello a tesa molto larga che – come ovvio in un mondo con le mille specificità della tradizione alimentare di casa nostra – ha creato un po’ di malumori. E Calenda – cui si affidano tutti per trovare una soluzione condivisa – dovrà lavorare a una mediazione per riuscire a varare in tempi stretti il super-scudo tricolore contro le contraffazioni.
Il fronte dei sostenitori del lodo del ministro annovera in prima fila il mondo caseario. “E’ un progetto molto interessante – dice Massimo Forino, direttore di Assolatte -. Certo qualche consorzio si lamenta e molti dei formaggi Dop e Igp hanno già un’italianità riconosciuta. Ma è un percorso su cui si deve andare avanti”. Semaforo verde anche dal mondo della pasta nazionale, malgrado i mal di pancia di chi ha aperto stabilimenti all’estero che non beneficerebbero del marchio. “Sosteniamo ogni iniziativa efficace del governo per affrontare il problema dell’italian sounding e della contraffazione”, dice Luigi Cristiano Laurenza, segretario dei pastai dell’Aidepi, l’associazione di settore. La produzione italiana di grano è pari a 4 milioni di tonnellate l’anno (“e noi la assorbiamo tutta”) contro i 7 milioni d fabbisogno dell’industria nazionale che lo trasforma. Parte della materia prima, anche per questioni di contenuto proteico più elevato, arriva dall’estero. Ma spaghetti, fusilli & C. potrebbero comunque fregiarsi dello “stellone”. “La tutela dei prodotti italiani non investe la provenienza degli ingredienti impiegati ma la capacità dei produttori italiani di trasformarle in prodotti d’eccellenza – sostiene Laurenza -. È tradizione e saper fare, qualcosa di immateriale”.
La prova? In Italia non è mai cresciuta una pianta di caffè o di cacao, eppure il Belpaese è una eccellenza riconosciuta a livello planetario su caffè e cioccolato, un marchio intangibile che però crea lavoro e ricchezza. Un altro piatto forte della tavola nazionale, quello della carne e dei salumi è – al netto di qualche spigolatura – favorevole all’approccio. “La proposta del governo ci piace. Se non altro perché va esattamente nella direzione che auspichiamo da tempo “, dice Nicola Levoni, presidente di Assica. Unico dubbio, il rischio di creare nuova burocrazia oltre quella che già c’è: “L’importante è che non diventi un aggravio di costi per chi, come noi forti esportatori, ne ha già tanti”. Problemi facili da risolvere per un uomo con le riconosciute capacità di mediazione come Calenda.
I nodi più difficili da sciogliere però – e al ministero lo sanno bene – sono altri. Tra i produttori d’olio, per dire, è allarme rosso. La crisi ha fatto crollare nel 2016 la raccolta di olive nel nostro paese. E la produzione nazionale copre solo un quinto del fabbisogno di materia prima per l’industria che nei decenni ha imparato a valorizzare le sue competenze (e a far volare le sue esportazioni) grazie all’uso dei “blend”, il cocktail di cultivar in arrivo dall’estero. “Apprezziamo la proposta, ma andrebbe strutturata su più livelli – è il messaggio esplicito di Cristiano Zucchi, presidente di Assitol, associazione italiana dell’industria olearia -. Altrimenti lascerebbe alla deriva oltre il 90% delle nostre esportazioni”. In soldoni, per capire la posta in palio, senza stellone rimarrebbero “2 miliardi di esportazioni e 500 milioni di valore aggiunto”. In preallerta sono pure i big del vino. “Abbiamo impiegato 50 anni a creare un sistema di valore serio e garantito fondato su Doc e Docg e solo queste possono portare il simbolo dello Stato – spiega Ottavio Cagiano, direttore di Federvini -. Possiamo convertire il sistema, ma non rottamarlo. Prima di usare lo stellone per tutto il vino e cancellare mezzo secolo di storia chiediamo di pensarci due volte”. Il loro timore è chiaro: vedere annacquati i loro prodotti certificati con disciplinari severissimi in un mare magnum (quello del nuovo marchio del made in Italy) di etichette “fai-da-te” degne di protezione anche se magari si sono torchiate uve in arrivo dall’estero.
L’opposizione più dura allo stellone è però quella degli agricoltori. “È il contrario di quello che chiedono i consumatori in Italia e all’estero – dice Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti -. La gente vuole prodotti fatti con materie prime e trasformazioni al 100% italiane. La prova? La polemica del ‘New York Times’ sull’olio italiano fatto con olive straniere che ha fatto tanti danni a tutto il sistema”. Il modello “lasco” di made in Italy previsto dal marchio di Calenda è a suo parere “un capolavoro di ipocrisia che tutelerebbe per dire un concentrato di pomodoro cinese coltivato con sfruttamento e abuso di fitosanitari e solo inscatolato nel nostro paese”. “Se si devono spendere euro e lavoro per difendere le nostre eccellenze noi lo faremmo in un altro modo – gli fa eco Riccardo Deserti, direttore del consorzio del Parmigiano Reggiano -: si dovrebbe ad esempio lavorare per fissare nelle sedi internazionali le regole per salvaguardarle. Sul Ceta, per dire, è stato fatto un buon lavoro”.
Fonte: Repubblica